Irisultati ottenuti dalla zona industriale siracusana sono encomiabili nel periodo del Coronavirus, in pieno lockdown, nonostante lo stop imposto a tutti i settori non essenziali imposto dai provvedimenti del governo per limitare i contagi da coronavirus.
I lavoratori siracusani hanno continuato a lavorare in tutta sicurezza.
Le grandi aziende della zona industriale hanno prodotto per la Sanità, gas medicali per gli ospedali, disinfettanti, i derivati per l’amuchina, la detergenza, gel igienizzanti, la plastica mono uso per ricavare guanti, camici ed altro.
L’assicurazione della produttività del combustibile che ha permesso la sua diffusione in tutt’Italia, mentre impianti del Nord sono stati costretti a ridurre il regime della produttività o costrette a fermare gli impianti.
Le industrie siracusane no, hanno sopperito vuoti, osservando scrupolosamente i dettami della prevenzione e della salute anticipando i tempi del Dpcm emesso dal governo Conte con le relative rigide prescrizioni.
Un risultato oltre le aspettative osservando rigorosamente la salute dei lavoratori senza avere un pur minimo sospetto di rischio contagio con controlli severi all’ingresso e all’uscita delle industrie, oltre che un’organizzazione interna, incluso un massiccio ricorso allo smart working, che permetteva di evitare possibili assembramenti, stabiliva orari diversificati tra i comparti. Tutto quanto ha funzionato nei minimi termini anticipando tutti con giudizio e sicurezza.
Insomma, in buona sostanza, tutte le aziende del polo petrolchimico siracusano non si sono mai fermate, per effetto delle deroghe concesse dal prefetto.
In questo contesto di grande responsabilità da parte delle imprese del petrolchimico non si avverte all’orizzonte a Siracusa una «politica industriale».
O, per essere più esatti, una nuova e migliore politica industriale.
Non certo l‘intervento dello Stato a supporto di particolari settori definiti «strategici». Servono, semmai, le scelte e gli investimenti pubblici per stimolare e attrarre investimenti privati, interni e internazionali. Le infrastrutture materiali e immateriali. La ricerca e la formazione di qualità. La creazione di condizioni per fare crescere le imprese, a cominciare da un‘efficiente pubblica amministrazione. Eccola, la buona «politica industriale»: una politica economica di innovazione, cultura d‘impresa e di mercato, sviluppo. Pensate se nella nostra zona fossero state costruiti i ventilatori polmonari, pensate l‘utilità delle mascherine nella popolazione generale continua ad essere controversa, ad eccezione di quando si presentano sintomi respiratori: nel caso dei portatori del nuovo Coronavirus, l‘uso del dispositivo può ridurre il rischio di infettare altre persone. Se ci fosse stata un’azienda a realizzare le mascherine FFP1, FFP2 e FFP3 pensati per proteggere gli operatori dalla contaminazione esterna e da polveri, fumi e particelle ambientali. Siracusa oltre tutto quello che ha prodotto utilmente nel periodo lockdown, avrebbe raggiunto obiettivi impensabili. Ma la politica industriale sul territorio dov’è?
Ma se da un canto mancano i politici per disegnare lo sviluppo futuro della politica industriale, abbiamo un altro aspetto della medaglia: l’economia malata della media e piccola impresa siracusana.
Nel mondo globalizzato tutte le aziende sono state coinvolte in questi ultimi anni da una colossale ristrutturazione che ha trasformato integralmente la natura stessa della grande corporation.
Insiste anche una plurifattoriale di cause e, sempre, le vere ragioni sono ben lontane da quelle immediatamente visibili.
Per capire le ragioni del dissesto-suicidio, occorre scavare a fondo tanto nella storia personale del soggetto e nella costruzione della sua spiritualità più profonda, quanto nel contesto sociale, ambientale, in cui sempre l’uomo compie le esperienze fondamentali della sua vita sociale.
Nella società contemporanea la maggioranza delle imprese grandi e medie risultano malate, molto malate. Molte volte, ahimé, a dirigerle non ci sono medici, ma portatori di malattie, come la profonda crisi ha reso evidente dinanzi agli occhi di tutti.
Ma c’è di peggio: l’azienda non è più il porto sicuro rispetto alle asperità e ai disagi della vita reale. Ci sono casi diversi, e reati diversi, dove non si può fare configurazione alcuna, citiamo i più eclatanti, ad esempio, si è iniziato da oltre un lustro la decadenza del gruppo Acqua Marcia, un‘impresa del settore immobiliare, portuale, aeroportuale e turistico-ricettivo, titolare del costruendo porto turistico e dell’ex albergo Des Ètrangers, nella bufera giudiziaria con un miliardo di sofferenza; il crac della Sai 8 che è sfociata nei Veleni in Procura; ai casi più recenti per distinti reati amministrativi come l’IGM Rifiuti industriali.
Casi di reati diversi come quello dell’impero Frontino sgretolarsi davanti alla giustizia; oppure il caso di Lentini, la più grande discarica della Sicilia, la società coinvolta nel traffico illecito di rifiuti e reati ambientali; sempre in tema rifiuti il cui Tar ha confermato interdittiva antimafia per Tech Servizi i cui risvolti saranno svelati; per non dimenticare l’operazione della Guardia di Finanza nel porto di Augusta con Port Utility, corruzione per un appalto da 1,8 mln di euro e sequestri vari.
Questi alcuni esempi più eclatanti ma ce ne sono altri minori e importanti di appalti e sub appalti che rasentano a tutti gli effetti l’economia malata «di reati». Una tragedia ciclica che inesorabilmente tocca i lavoratori, le famiglie, nonostante il sindacato vigili sul territorio, ma «gelati» dall’intervento dalla magistratura siracusana alle prese da ‘corsari e avventurieri da strapazzo’.
Un sorriso,
Joe Bianca